Dove il sole bacia la pietra

Pubblicato il
Mosel, Calmont

C'è un punto, sulla strada che costeggia l'ansa del fiume Mosella tra i villaggi di Bremm ed Ediger-Eller, dove il navigatore suggerisce di proseguire a piedi. Non per capriccio: semplicemente, la vigna del Calmont sale con un'inclinazione di 65 gradi, la più ripida d'Europa. Guardarla dal basso toglie il fiato. Guardarla dall'alto, mentre i vignaioli si calano con corde e imbracature per la vendemmia, toglie qualsiasi certezza sulla ragionevolezza del genere umano.

Eppure qui, su questi pendii impossibili dove ogni operazione richiede il triplo del tempo e le statistiche registrano ancora incidenti mortali tra i lavoratori, nascono alcuni dei Riesling più straordinari del pianeta. Non è un paradosso: è la dimostrazione più radicale di come pendenza, esposizione e velocità di maturazione siano i tre pilastri invisibili su cui poggia la grandezza di un vino.

Il principio è semplice nella teoria, complesso nelle infinite sfumature della pratica. Un vigneto inclinato verso sud, nell'emisfero boreale, cattura più luce solare rispetto a uno pianeggiante. L'angolo di incidenza dei raggi aumenta, e con esso l'accumulo di calore nel terreno. Ma non basta: sui pendii della Mosella, le rocce di ardesia che affiorano tra i filari assorbono il calore durante il giorno e lo rilasciano lentamente durante la notte, creando una sorta di riscaldamento a pavimento naturale per le radici. Questo permette di coltivare il Riesling a latitudini (49-50° Nord) dove, senza questi accorgimenti geologici e topografici, l'uva non riuscirebbe mai a maturare.

I monaci cistercensi lo avevano capito già nel Medioevo, quando iniziarono a mappare le parcelle della Borgogna con una precisione ossessiva. Notarono che vigneti distanti poche decine di metri producevano vini radicalmente diversi. La spiegazione stava quasi sempre nella posizione sul versante: i migliori, quelli che oggi chiamiamo Grand Cru, occupano la fascia mediana della collina, dove l'esposizione verso est e sudest garantisce il sole del mattino senza gli eccessi del pomeriggio, e dove il suolo calcareo-marnoso raggiunge il perfetto equilibrio tra drenaggio e ritenzione idrica.

«Prima dei quindici-vent'anni di età le vigne non fanno mai un vino davvero buono», sosteneva Sebastian Stocker, il leggendario cantiniere della Cantina di Terlano in Alto Adige. Le viti anziane affondano le radici in profondità, raggiungendo strati minerali inaccessibili alle piante giovani. Ma la profondità delle radici è determinata anche dalla pendenza: sui terreni ripidi, dove l'acqua scorre via rapidamente, le viti sono costrette a cercarla più in basso, sviluppando apparati radicali che possono estendersi per decine di metri. Il risultato è una maggiore complessità minerale nel vino, quella sensazione di «pietra bagnata» che gli assaggiatori descrivono nei grandi Riesling della Mosella o nei Nebbiolo di Valtellina.

Proprio la Valtellina offre forse l'esempio più estremo di viticoltura eroica italiana. Ottocento ettari di vigneto aggrappati al versante retico delle Alpi, sostenuti da circa 2.500 chilometri di muri a secco costruiti a mano nel corso dei secoli. Le terrazze sono talmente strette che alcune ospitano un solo filare. Qui il Nebbiolo, chiamato localmente Chiavennasca, matura a quote che arrivano a 750 metri, dove in teoria non dovrebbe riuscire a completare il suo ciclo vegetativo. Ci riesce grazie all'esposizione rigorosamente meridionale, alla protezione delle Alpi Retiche dai venti freddi, e alla brezza del Lago di Como che asciuga i grappoli riducendo il rischio di malattie.

Il risultato? Vini che assomigliano più ai Pinot Noir della Borgogna che ai loro cugini piemontesi. «I tannini del Nebbiolo di Valtellina sono sostenuti da un'acidità fresca e da una mineralità che rendono i vini simili ai grandi Pinot Noir», conferma Danilo Drocco, enologo di Nino Negri, una delle cantine storiche della zona. La ragione sta nel ritmo della maturazione: l'altitudine abbassa le temperature (circa 0,6°C ogni cento metri di dislivello), rallentando l'accumulo degli zuccheri e preservando l'acidità naturale dell'uva.

È questo il cuore della questione: non conta solo quanta luce riceve un grappolo, ma per quanto tempo. Una maturazione lenta consente lo sviluppo completo dei precursori aromatici, quelle molecole invisibili che durante la fermentazione si trasformeranno nei profumi che riconosciamo nel bicchiere. Quando il caldo accelera troppo il processo, gli zuccheri raggiungono livelli ottimali prima che la buccia abbia sviluppato pienamente tannini e aromi. È quello che i viticoltori chiamano il disaccoppiamento tra maturità zuccherina e maturità fenolica: un problema che il cambiamento climatico sta rendendo sempre più pressante anche in zone storicamente temperate.

Le notti fresche giocano un ruolo cruciale. Quando la temperatura scende, il metabolismo della pianta rallenta, interrompendo la combustione degli acidi organici che avviene durante il giorno. Nel Uco Valley argentino, dove le escursioni termiche giornaliere raggiungono i 30°C, questo produce Malbec con un'acidità elettrica che sarebbe impensabile in climi più uniformi. Lo stesso principio spiega perché i pendii orientali, che ricevono il sole del mattino quando l'aria è ancora fresca, sono spesso preferiti a quelli occidentali, esposti al calore più intenso del pomeriggio.

A Gevrey-Chambertin, in Borgogna, i nove Grand Cru occupano la fascia medio-alta del versante, protetti dai boschi sommitali che fermano i venti freddi e le grandinate. I Premier Cru si trovano poco più in basso o su esposizioni leggermente meno favorevoli. I vigneti di villaggio, quelli che producono il vino più semplice, arrivano fino al fondovalle, dove i suoli alluvionali più fertili danno rese maggiori ma vini meno concentrati. È una gerarchia scritta nella terra, che i monaci medievali intuirono secoli prima che la scienza moderna potesse spiegarla.

Ma attenzione a non trasformare questa conoscenza in dogma. Nel mondo del vino, come in quello della vita, le regole esistono per essere intelligentemente violate. Nella stessa Mosella, i produttori stanno riscoprendo i pendii esposti a nord, un tempo considerati marginali, perché il riscaldamento globale li ha resi finalmente adatti alla viticoltura. In Valtellina, l'enologo Casimiro Maule di Nino Negri ha rivoluzionato le pratiche locali piantando i filari in direzione est-ovest invece che su e giù per il pendio: un'eresia secondo la tradizione, che però consente di gestire l'ombreggiatura della chioma e di introdurre piccoli trattori cingolati dove prima si lavorava solo a mano.

Così, mentre sorseggio un Riesling della Wehlener Sonnenuhr — letteralmente «meridiana di Wehlen», dal grande orologio solare dipinto sulla roccia del vigneto — penso a quanti calcoli, quanta fatica, quanta pazienza ci siano in questo bicchiere. La meridiana è solo un simbolo: il vero orologio di questi vini è scritto nell'inclinazione del pendio, nell'angolo del sole, nel lento scandire delle settimane che separano l'invaiatura dalla vendemmia. Ogni grado di pendenza, ogni ora di luce, ogni notte fresca lascia il suo segno nel vino. E forse è proprio per questo che, nonostante la fatica disumana, c'è ancora chi si arrampica su queste pareti di ardesia con le cesoie in mano. Perché sa che da nessun'altra parte il sole bacerebbe la pietra allo stesso modo.