Sono le quattro del mattino e la luna illumina i filari di Napa Valley con una luce spettrale. Una macchina vendemmiatrice avanza tra le viti come un gigante gentile, scuotendo le piante con una delicatezza che nessun operaio potrebbe mantenere dopo ore di lavoro estenuante. Gli acini cadono nel buio fresco, protetti dalla calura che di giorno trasformerebbe l'uva in un mosto in fermentazione prima ancora di arrivare in cantina. A diecimila chilometri di distanza, sui terrazzamenti della Valtellina, un uomo risale un sentiero che solo le capre percorrerebbero con nonchalance, la gerla sulle spalle carica di grappoli di nebbiolo raccolti uno per uno, come si fa da secoli.
Queste due scene, apparentemente inconciliabili, raccontano una verità che il mondo del vino a volte fatica ad accettare: nella vendemmia, non esiste un vincitore assoluto tra mano e macchina. Esiste solo la domanda giusta da porsi, e cioè quale vino si vuole fare.
La questione è annosa e divide gli esperti con la stessa veemenza delle dispute teologiche medioevali. Da una parte i puristi, convinti che il grappolo debba arrivare in cantina intatto come l'ha creato la natura, toccato solo da mani esperte. Dall'altra i pragmatici, forti di dati che dimostrano come le vendemmiatrici di ultima generazione possano produrre risultati indistinguibili — in certi casi addirittura superiori — a quelli della raccolta manuale.
I numeri parlano chiaro: in California, il novanta per cento delle uve viene raccolto a macchina. In Champagne, invece, il disciplinare vieta «tout moyen ne permettant pas la récolte de grappes de raisin entières» — qualsiasi mezzo che non consenta la raccolta di grappoli interi. Non è un obbligo esplicito della vendemmia manuale, ma con le tecnologie attuali il risultato è lo stesso: le vendemmiatrici convenzionali, che scuotono le piante per staccare gli acini, non possono operare in questa regione. Una norma che potrebbe cambiare se i robot in sviluppo riusciranno a staccare grappoli interi come fa una mano umana. La ragione di tanta cautela è tecnica: per produrre un vino bianco da uve nere — com'è nella tradizione champenoise — il grappolo deve arrivare intatto alla pressa. Il canonico Godinot scriveva già nel 1718 che questi vini dovevano essere «chiari come lacrime degli occhi», e per ottenere tale purezza «prima vengono pigiate le uve, più il vino sarà bianco». Tradotto: niente bucce rotte prematuramente, niente mosto a contatto con le vinacce prima del tempo.
Ma la vera questione non è se la macchina sia buona o cattiva. È dove e quando abbia senso usarla.
Stefano Nera, che insieme al fratello Simone guida la Casa Vinicola Pietro Nera fondata a Chiuro nel 1940, conosce bene la differenza. Sui terrazzamenti della Valtellina, dove 2.500 chilometri di muretti a secco sostengono vigneti che sfidano la gravità, la vendemmia meccanica non è un'opzione: semplicemente non esiste macchina capace di arrampicarsi su pendenze che superano il trenta per cento. «Per coltivare un vigneto in pianura ci vogliono trecento, quattrocento ore di lavoro all'anno per ettaro», spiega Nera. «Qui ne servono milleduecento. È tutta un'altra storia». Una storia di fatica, certo, ma anche di necessità: senza quelle mani, quelle vigne tornerebbero al bosco nel giro di pochi anni.
Il CERVIM, il Centro di Ricerche per la Viticoltura Montana, ha definito criteri precisi per quella che chiama «viticoltura eroica»: pendenze oltre il trenta per cento, altitudine sopra i cinquecento metri, coltivazione su terrazze o su piccole isole. In questi luoghi — dalla Valtellina alle Cinque Terre, dalla Costiera Amalfitana a Pantelleria — la meccanizzazione resta un sogno impossibile. Alle Cinque Terre, alcuni vigneti sono raggiungibili solo in barca.
Eppure, dove la macchina può arrivare, la tecnologia ha fatto passi da gigante. Le vendemmiatrici moderne non picchiano più le viti come facevano i primi modelli degli anni Settanta. Oggi scuotono, con frequenze calibrate al centesimo di hertz. Uno studio dell'Università di Bologna pubblicato sulla rivista Oeno One ha dimostrato che con la giusta regolazione — 410 scuotimenti al minuto per l'uva Montuni — e trattamenti post-raccolta appropriati, «la vendemmia meccanica non ha un'influenza negativa sulla composizione del vino». La differenza più significativa riguarda i composti fenolici, leggermente più bassi nei vini da raccolta meccanica a causa dell'ossidazione precoce degli acini rotti. Ma anche questo problema trova oggi una soluzione tecnologica.
I selezionatori ottici rappresentano forse la più grande rivoluzione nella vinificazione degli ultimi decenni. Macchine come la Pellenc Selectiv' Vision 3 o il robot Alien — testato già nel 2017 ai Château Calon Ségur e Haut Bailly, nobiltà bordolese che non scherza in fatto di qualità — analizzano ogni singolo acino in trenta millisecondi. Telecamere ad alta velocità confrontano forma, colore, dimensione e struttura con parametri ideali stabiliti dall'enologo. Un soffio d'aria compressa espelle tutto ciò che non corrisponde: acini acerbi, uva passa, foglie, frammenti di raspo. «È una tecnologia sorprendente», ha commentato un produttore intervistato da Pellenc. «Elimina particelle microscopiche che nessun occhio umano potrebbe individuare, impossibili da selezionare a mano».
Juan Muñoz-Oca, capo enologo della Columbia Crest Winery nello stato di Washington, gestisce quindicimila tonnellate di uva a vendemmia. «C'è una bella differenza tra maneggiare cinque tonnellate in una piccola cantina e processare quello che lavoriamo qui», osserva. Per lui, la selezione ottica ha significato eliminare il «rumore di fondo» che può offuscare l'espressione del vitigno. In Canada, un produttore usa i quattro livelli di selezione della macchina per creare diverse linee di vino: la più severa, che scarta anche acini perfetti con minuscoli frammenti di raspo attaccati, produce quello che lui chiama «un cestino di caviale».
C'è poi il vantaggio della vendemmia notturna. In regioni calde come l'Australia, la California meridionale o la Sicilia, raccogliere di notte significa portare in cantina uve a temperature di quindici o venti gradi invece dei quaranta dell'ora di pranzo. La differenza per la freschezza del vino finale può essere determinante. Una squadra di vendemmiatori umani non potrebbe mantenere per ore l'efficienza necessaria nell'oscurità; la macchina sì.
Resta il costo: la vendemmia manuale costa circa tre volte di più di quella meccanica. Un divario che si traduce inevitabilmente nel prezzo al consumatore. I vini da viticoltura eroica — lo Sciacchetrà delle Cinque Terre, lo Sforzato della Valtellina — partono da quaranta, cinquanta euro a bottiglia e possono superare abbondantemente il centinaio. Il mercato li assorbe perché sono prodotti di nicchia, destinati a chi cerca l'irripetibile.
Per vini freschi e d'annata destinati a un consumo più quotidiano, invece, la meccanizzazione si rivela non solo accettabile ma talvolta preferibile. Per vini come un Prosecco che deve arrivare in tavola con tutta la sua fragranza, portare l'uva in cantina nel minor tempo possibile è cruciale. La macchina, che raccoglie in ore ciò che richiederebbe giorni, garantisce quella velocità.
Marty Spate, un produttore californiano, riassume bene il cambiamento di prospettiva: «Se nel 2005 qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei fatto bottiglie da cento dollari con uve vendemmiate a macchina, avrei riso. Ma viviamo in un mondo molto, molto diverso». Un mondo dove la tecnologia non sostituisce la tradizione, ma la affianca. Dove il gesto antico del vendemmiatore e il ronzio della selezionatrice ottica possono coesistere nella stessa cantina, ciascuno al servizio di un vino diverso.
Sui terrazzamenti della Valtellina, intanto, le gerle continuano a salire e scendere. Non per nostalgia del passato, ma perché in certi luoghi il futuro non ha altra forma possibile che quella di una mano che stringe un grappolo.