Roussillon: dove il vento ha cambiato direzione

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Canigou

Il primo indizio che qualcosa stava cambiando arriva da una bottiglia senza etichetta, stappata in una cantina scavata nello scisto nero di Calce. Siamo a una trentina di chilometri da Perpignan, nel cuore di quella che per secoli è stata la patria dei vini dolci fortificati, e Gérard Gauby sta versando un rosso che non assomiglia a nulla di quello che ci si aspetterebbe da queste parti. Niente della dolcezza sontuosa dei Banyuls, niente della potenza alcolica dei Rivesaltes. Invece, un vino nervoso e minerale che sembra voler raccontare una storia diversa.

«Quando ho cominciato a vinificare secco, negli anni Ottanta, mi prendevano per matto», racconta Gauby, le mani ancora sporche di terra perché qui, al Domaine Gauby, il lavoro in vigna non si delega. «Il Roussillon era dolce per definizione. I négociants volevano solo mosti concentrati da fortificare. L'idea di fare un grande rosso da tavola sembrava una bizzarria».

Eppure quella bizzarria ha finito per contagiare un'intera regione. Oggi il Roussillon è uno dei territori più dinamici del panorama vinicolo francese, un laboratorio dove convivono tradizione secolare e sperimentazione radicale. La metamorfosi non è stata indolore, e nemmeno completa. Ma percorrendo le strade tortuose che si inerpicano verso i Pirenei, tra filari di grenache centenario aggrappati a terrazzamenti vertiginosi, si capisce che qualcosa di profondo è mutato nell'anima di questa terra di confine.

Il Roussillon ha sempre avuto una vocazione alla frontiera. Catalano per lingua e cultura, francese per appartenenza politica dal 1659, questo lembo di Mediterraneo incastrato tra le montagne e il mare ha costruito la sua identità vinicola sulla diversità. I Vins Doux Naturels – Banyuls, Maury, Rivesaltes, Muscat de Rivesaltes – non sono semplici vini dolci ma il risultato di una tecnica di mutage, l'aggiunta di alcol durante la fermentazione per preservare gli zuccheri naturali dell'uva, che qui si pratica dal XIII secolo. Fu Arnau de Vilanova, medico alla corte dei re di Maiorca, a codificare il procedimento intorno al 1285. Da allora, generazioni di vignerons hanno affinato l'arte di trasformare il grenache in nettari ambrati capaci di sfidare i decenni.

Ma il mercato, si sa, ha la memoria corta e il palato volubile. Dagli anni Sessanta in poi, i vini dolci hanno cominciato a perdere terreno. I consumi calavano, i prezzi crollavano, i giovani abbandonavano le vigne. Il Roussillon rischiava di diventare un museo enologico, custode di tradizioni magnifiche ma sempre più marginali.

La svolta è arrivata da chi ha saputo guardare la stessa terra con occhi nuovi. Oltre a Gauby, altri pionieri hanno intuito che quei vigneti antichi, quegli scisti neri che assorbono il calore del sole, quel vento di tramontana che asciuga i grappoli e tiene lontane le malattie, potevano dare molto più di mosti da fortificare. A Maury, dove il grenache noir regna sovrano su colline che sembrano disegnate da un pittore espressionista, il Mas Amiel ha affiancato alla produzione storica di vini dolci una linea di rossi secchi che hanno conquistato la critica internazionale. A Collioure, dove le vigne scendono a picco sul Mediterraneo in uno dei paesaggi più spettacolari d'Europa, la denominazione ha sempre previsto vini secchi accanto ai Banyuls, ma è solo negli ultimi vent'anni che questi rossi intensi e salini hanno trovato il loro pubblico.

Chi arriva oggi nel Roussillon trova una regione in fermento. Nelle Côtes du Roussillon Villages, denominazione che valorizza da tempo terroir specifici come Lesquerde, Latour de France o Caramany, si moltiplicano i produttori che lavorano con approcci biologici o biodinamici, inseguendo un'idea di vino che sia prima di tutto espressione del territorio. Al Clos des Fées, Hervé Bizeul – ex sommelier riconvertito vigneron – produce rossi di straordinaria eleganza da vigne di carignan ultracentenarie, dimostrando che questo vitigno tanto bistrattato, quando viene da piante vecchie e rese bassissime, può dare risultati sorprendenti. A Calce, accanto a Gauby, si è stabilita una piccola comunità di vignaioli che comprende nomi come Tom Lubbe del Domaine Matassa e Olivier Pithon, attratti dalla qualità degli scisti e dalla possibilità di lavorare grenache e carignan con interventi minimi in cantina.

La trasformazione non significa però rinnegamento. Uno degli aspetti più affascinanti del Roussillon contemporaneo è proprio la capacità di far convivere le due anime, dolce e secca, senza che l'una debba soccombere all'altra. Al Domaine Cazes, a Rivesaltes, Emmanuel Cazes continua a produrre i grandi vini ossidativi della tradizione familiare – alcuni invecchiati per decenni in dame-jeannes esposte al sole e alle intemperie – accanto a bianchi e rossi secchi che parlano un linguaggio completamente diverso. È una coesistenza che richiede equilibrio e, soprattutto, la consapevolezza che l'identità di un territorio non è mai monolitica.

C'è poi la questione del grenache, il vitigno che più di ogni altro incarna l'anima del Roussillon. Qui la varietà trova condizioni ideali: il caldo mediterraneo ne esalta la generosità, la tramontana ne concentra gli aromi, i terreni poveri e sassosi costringono le radici a scendere in profondità alla ricerca di acqua e nutrimento. Il risultato sono uve di incredibile intensità, capaci di dare vini che sfiorano i 16 gradi alcolici mantenendo sorprendente freschezza. Ma il grenache è anche un vitigno capriccioso, che ossida facilmente e richiede mani esperte in cantina. La nuova generazione di vignerons ha imparato a domarlo, spesso ricorrendo a vinificazioni in anfora o cemento, evitando il legno nuovo che ne maschererebbe il carattere.

Mentre il sole cala dietro il massiccio del Canigou, tingendo di rosa le rocce nere di Maury, torno a ripensare a quella bottiglia senza etichetta assaggiata nella cantina di Gauby. Conteneva un Muntada, il vino che più di ogni altro ha contribuito a cambiare la percezione del Roussillon nel mondo. Un assemblaggio magistrale da vigne vecchissime, vinificato come si farebbe in Borgogna con un grand cru. Ha il prezzo e il blasone di un grande Borgogna, peraltro, e questo forse è il segno più tangibile di una rivoluzione compiuta.

Ma la vera domanda, quella che aleggia tra i filari e nelle cantine scavate nella roccia, è un'altra: quando l'ultima bottiglia di Rivesaltes Ambré invecchiato quarant'anni sarà stata stappata, cosa resterà della memoria dolce di questa terra? Forse un ricordo, come quello che Gauby conserva del nonno che gli insegnò a potare. O forse qualcosa di più: la consapevolezza che cambiare non significa tradire, ma semplicemente trovare nuove strade per raccontare la stessa storia.