La prima impressione, risalendo la valle lungo la Dora Baltea, è che qui tutto tenda verso l’alto. Le montagne incombono, i castelli sorvegliano i villaggi, i boschi salgono rapidi. Per istinto si pensa che anche il vino debba nascere lassù, in alto, quasi a ridosso dei ghiacciai. Non è così. E forse proprio questo equivoco racconta molto della Valle d’Aosta del vino.
Le vigne, in realtà, stanno più in basso. Stanno dove il sole riesce a lavorare davvero, tra i 450 e i 750 metri, sui versanti meglio esposti della valle centrale. Non cercano l’eroismo da cartolina: cercano equilibrio. È un dettaglio importante, perché qui il vino non vive di leggende, ma di precisione.
La prima impressione, risalendo la valle lungo la Dora Baltea, è che qui tutto tenda verso l’alto. Le montagne incombono, i castelli sorvegliano i villaggi, i boschi salgono rapidi. Per istinto si pensa che anche il vino debba nascere lassù, in alto, quasi a ridosso dei ghiacciai. Non è così. E forse proprio questo equivoco racconta molto della Valle d’Aosta del vino.
Le vigne, in realtà, stanno più in basso. Stanno dove il sole riesce a lavorare davvero, tra i 450 e i 750 metri, sui versanti meglio esposti della valle centrale. Non cercano l’eroismo da cartolina: cercano equilibrio. È un dettaglio importante, perché qui il vino non vive di leggende, ma di precisione.
La viticoltura valdostana è difficile, sì, ma non è una sfida gratuita alla quota. È piuttosto una viticoltura di pendenza, di suoli magri e di microclimi spezzettati. I vigneti si sviluppano come cuciture sul fianco della montagna, spesso sostenuti da muri a secco, ma raramente spinti oltre ciò che l’uva può sostenere senza perdere identità.
A Donnas, al confine con il Piemonte, il Nebbiolo locale – il Picotendro – cresce intorno ai 300–500 metri. È un Nebbiolo più nervoso che muscolare, e non è un caso se produttori come Caves de Donnas o il piccolo Pianta Grossa ne offrono versioni che privilegiano tensione e verticalità, piuttosto che potenza estrattiva. Qui il tannino non è mai esibito: accompagna.
Salendo verso Aymavilles e Chambave, tra i 500 e i 700 metri, entrano in gioco i grandi vitigni autoctoni rossi: Petit Rouge, Fumin, Cornalin. Vini che parlano un dialetto alpino riconoscibile, soprattutto quando a interpretarli sono produttori come Les Crêtes o Grosjean Vins, capaci di coniugare rigore tecnico e rispetto del carattere montano. I loro rossi non cercano concentrazione: cercano definizione.
Il Fumin, in particolare, è forse il vitigno che meglio rappresenta il presente della Valle d’Aosta. Scuro, speziato, naturalmente acido, può facilmente diventare rustico. Quando è ben interpretato – come nelle versioni di Maison Anselmet – rivela invece una sorprendente eleganza alpina, fatta di frutto misurato e finale asciutto.
L’eccezione altimetrica esiste, ed è nota. A Morgex e La Salle, ai piedi del Monte Bianco, il Prié Blanc cresce davvero in alto, fino a 1000–1200 metri. Ma è un caso unico, non la regola. Qui la viticoltura diventa quasi una questione climatica più che topografica, e non a caso la Cave Mont Blanc ha costruito intorno a questo vitigno una delle identità più riconoscibili della regione: bianchi affilati, salini, spesso spietatamente sinceri.
Nel complesso, la Valle d'Aosta DOC resta una denominazione minuscola, frammentata, poco incline ai proclami. Ma proprio questa frammentazione è la sua forza. Ogni valle laterale, ogni conoide, ogni esposizione genera vini leggermente diversi. Non esistono stili “internazionali” qui: esistono interpretazioni locali.
Negli ultimi anni una nuova generazione di vignaioli ha scelto di non semplificare il racconto. Nessuna scorciatoia aromatica, nessun legno invadente. Piuttosto una crescente attenzione alla bevibilità, alla precisione, a quella forma di eleganza che non chiede applausi immediati. In una regione che vive di turismo e di grandi paesaggi, il vino resta una voce discreta.
I vini della Valle d’Aosta oggi non chiedono di essere spiegati come imprese eroiche. Chiedono solo di essere ascoltati. Raccontano una montagna abitata, coltivata, ragionata. Una montagna che non ha bisogno di estremismi per essere autentica.
Forse è questo il loro tratto più moderno: sapere esattamente fin dove spingersi.